Vorriæ poi vive pe sempre pe poi sempre vei
Vorrei poter vivere per sempre per poter sempre vederel’oiva ch’a nasce e l’uga ch’à moe into vin
l’olivo che nasce e l’uva che muore nel vinotutte e ciañe zerbie e i tacchi ancon da sappâ
tutti i campi incolti e i solchi ancora da ararea mæ vitta ch’à passa ma a no se ne veu andâ.
la mia vita che passa ma non se ne vuole andare.Ciane zerbie
(musica e parole di Roberto Frugone)
Nel decimo episodio del podcast Petali nella burrasca, conversando con l’amico regista teatrale Federico Luciani, abbiamo presentato Ciane zerbie (Campi incolti), la mia prima canzone in dialetto genovese, composta nel 1997 e pubblicata nel 1999 all’interno dell’album Un giorno sulla terra.
Gli ascoltatori del podcast potranno ascoltare, al termine della puntata, la versione del brano registrata a Chiavari il 12 luglio 2018 da Fulvio Fusaro, nell’esecuzione dal vivo dalla Roberto Frugone Band durante lo spettacolo Liguritudine – Viaggio in Liguria, all’origine di un’idea di bellezza.
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CIANE ZERBIE
(Musica e parole di Roberto Frugone.
Tutti i diritti riservati ® S.I.A.E.)
Vorriæ cantâte a mæ canson ciù bella
co-e parolle da mæ gente
de tutte quelle vitte in paxe e in goera
che no canta mai nisciun perché i no cunto ninte
parlâ co-i zoeni de ottant’anni
che passe o mondo e lu i l’arresto lì
à cuntâ e macchine pe-o ponte
pe quella strà che primma à no passeia de chì.
Vorriæ portate pe-a çimma do monte
e chinâ zù da l’ätra parte
pe cheugge di fiuri, de piante e un po’ do tempo
ch’o s’é affermou chì sensa dî ninte
a-i vëgi de vint’anni
pe quelle macchine pe-o ponte
ch’i g’an unna vitta lì davanti
ma i no l’an mai suou pe ninte
Vorriæ poi vive pe sempre pe poi sempre vei
l’oiva ch’a nasce e l’uga ch’à moe into vin
tutte e ciañe zerbie e i tacchi ancon da sappâ
a mæ vitta ch’à passa ma a no se ne veu andâ.
Vorriæ ëse l’ommo che no son mai stou
ch’o sa sempre comme fâ, ch’o te sa convinse
Vorriæ veitæ co-o teu scialle*, vorriæ o mæ lou
vorriæ ancon quarcösa da perde e da vinçe.
CAMPI INCOLTI
(traduzione del testo originale in dialetto genovese)
Vorrei cantarti la mia canzone più bella
con le parole della mia gente,
di tutte quelle vite in pace e in guerra
che non canta mai nessuno
perché non contano niente,
parlare coi giovani di ottant’anni
che passa il mondo ma loro restano lì
a contare le macchine sul ponte,
su quella strada che prima non passava di qui.
Vorrei portarti sulla cima del monte
e scendere giù dall’altra parte
per raccogliere dei fiori,
delle piante e un po’ del tempo
che si è fermato qui senza dire niente
ai vecchi di vent’anni
su quelle macchine sul ponte
che hanno una vita lì davanti
ma non hanno mai sudato per niente.
Vorrei poter vivere per sempre per poter sempre vedere
l’olivo che nasce e l’uva che muore nel vino,
tutti i campi incolti e i solchi ancora da arare
la mia vita che passa ma non se ne vuole andare.
Vorrei essere l’uomo che non sono mai stato,
che sa sempre come fare, che ti sa convincere,
vorrei vederti con il tuo scialle*, vorrei il mio lavoro,
vorrei ancora qualcosa da perdere e da vincere.
*Quell’indimenticabile “teu scialle” appartiene a mia nonna Anna.
MUSICISTI VERSIONE STUDIO ALBUM UN GIORNO SULLA TERRA [1999]
- Roberto Frugone – voce, chitarra folk, pianoforte e tastiere
- Francesca Ceselli – voce
- Carlo Faraci – chitarra elettrica e voce
- Mauro Perego – flauto
- Lelio Mollar – basso
- Michele Di Capita – batteria e shaker

MUSICISTI VERSIONE LIVE LIGURITUDINE [2018]
Versione inserita in coda alla puntata 10 del podcast Petali nella burrasca.
- Roberto Frugone – voce, pianoforte e tastiere
- Daniele Lagomarsino – chitarra elettrica
- Gianteo Bordero – basso
- Luca Laurino – batteria
IL GENOVESE, LA LINGUA CHE MI HA PERMESSO DI “CANTARE LA TERRA”
Federico: «In questo episodio affrontiamo Ciane zerbie, la tua prima canzone in genovese inserita in un tuo album».
Roberto: «Si tratta di una canzone a cui sono molto legato, che mi piace continuare a proporre durante i miei spettacoli, e che identifica per me l’inizio di un filone compositivo, creativo ed espressivo della mia produzione, quello appunto in dialetto genovese.
Federico: «Cosa significa, per te, scrivere e cantare in genovese?»
Roberto: «Sostanzialmente ho sempre racchiuso la risposta a questa domanda in quest’espressione: il genovese mi permette di “cantare la terra”, intendendo con questa frase la possibilità di esprimere in musica e parole il legame che io sento forte con la mia terra d’origine, la Liguria. Un legame non di tipo campanilistico, di bandiera – concetto di non facile trasmissione, quest’ultimo –, ma culturale e sociale.

UN’IDENTITÀ INSTABILE AL DI LÀ DELLA TRADIZIONE E DEL FOLKLORE
Per me, cantare in dialetto significa esprimere la ricerca di un’identità assolutamente non statica. Il grande rischio, infatti, quando ci si approccia all’universo culturale legato al dialetto, di solito sedimentato in una tradizione, è proprio quello di fossilizzarsi su una dimensione esclusivamente folcloristica (dico questo pur nel profondo rispetto nei confronti dei mondi variegati e nobilissimi che il folklore racchiude e che non intendo minimamente screditare) rimanendo legati a una certa estetica della forma linguistica, dell’utilizzo di parole caratteristiche che solleticano un certo immaginario, nonché dell’identificarsi con quella sorta di nazione minore che il dialetto in qualche modo delimita. Per me, cantare in dialetto non significa questo, ma viceversa è utilizzare la “lingua della terra (e del mare)”, la lingua che esprime concetti difficilmente o diversamente esplicabili in italiano e prodotti dalla cultura e dalla storia delle genti di Liguria, tra cui mi sono trovato a nascere e vivere.
Inoltre, attraverso questo processo, posso trovare e sperimentare letteralmente un’altra lingua e conseguentemente dei nuovi percorsi sonori ed espressivi, connettendomi a tutto quel tessuto culturale e umano, per me caratterizzato anche a livello parentale, che ho sperimentato vivendo in provincia, la provincia di Genova».
RICERCA E SPERIMENTAZIONE ATTORNO ALLE RADICI
Federico: «Già, quella provincia da cui siamo più volte partiti e ritornati nelle nostre conversazioni in podcast, e di cui abbiamo parlato già presentando i tuoi primi album. La precedente esperienza di Appunti di viaggio è stata un po’ l’embrione che ha permesso la nascita anche di questo germoglio che ha dato vita al ramo delle tue canzoni in dialetto, convogliate una prima volta con Ciane zerbie dentro Un giorno sulla terra».
Roberto: «Ciane zerbie è la prima che ho scritto, nel 1997, in seguito a un esperimento linguistico quasi casuale che mi sono trovato a fare in quegli anni per me ricchi di ricerca e sperimentazione. Avevo 23 anni, ero alla permanente ricerca di definizione del mio stile, e questa canzone è nata dal desiderio di dedicare un pezzo alle mie radici, ispirato e dedicato in particolare ai miei nonni paterni Vittorio – detto Ninno – (1911/2005) e Anna (1922/1990).
Mio nonno Vittorio, inoltre, nell’incisione originale dell’album, introduce con un’intervista che gli rubai durante una delle nostre molte conversazioni a base di narrazioni della vita di paese che amavo ascoltare per carpirgli un po’ di storia. Egli, dotato di una grande memoria, amava moltissimo narrare tutte le vicende che lo avevano visto protagonista soprattutto da giovane, consegnandomi degli affreschi sociali e culturali irresistibili.
LA CULTURA METICCIA, CONTADINA E MARINARA, DI CASARZA LIGURE
Questa dimensione culturale ibrida, meticcia, contadina e marinara assieme, di coltivatori diretti del primo entroterra – molti dei quali lavoravano anche nei cantieri navali di Riva Trigoso –, caratterizza a mio avviso molta della memoria storica di Casarza Ligure, il mio paese di origine e di residenza, collocato immediatamente alle spalle del mare di Sestri Levante, nel golfo del Tigullio. A questa memoria ho attinto a piene nel comporre la canzone Ciane zerbie, ma soprattutto nel forgiare il mio immaginario ligure».
GUARDANDO IL MONDO ATTRAVERSO GLI OCCHI DI UN VECCHIO
Federico: «Tu, nel pezzo, ti metti proprio nei panni di tuo nonno, guardi il mondo che cambia attraverso i suoi occhi, parli dell’autostrada che passa sopra Casarza Ligure, su quel “ponte che prima non passava di qua”».
Roberto: «Sì, il testo della canzone si impianta su una musica in tonalità di Mi minore (Em), volutamente molto malinconica e impostata sulla chitarra folk – la quale, come in molti miei brani, costituisce l’ossatura ritmico-armonica del pezzo – dall’incedere molto dondolante.
Su questa musica lenta, solenne e riflessiva, canto delle parole altrettanto malinconiche, in cui il soggetto narrante sono io immedesimato nei panni di mio nonno anziano che guarda all’indietro nel tempo, e che attraverso tutti quei “vorrei” che costellano il testo, ho immaginato che egli dedicasse a sua volta questo testo a mia nonna Anna, venuta a mancare qualche anno prima, nel 1990.
Ecco quindi che in questo pezzo ci sono tutta una serie di immagini e di piani narrativi che si mescolano: quelle in cui io mi metto nei suoi panni, ma nello stesso tempo quello che io, giovane, vedo e cerco di esprimere. La canzone, che alla fine è una canzone d’amore, traspira la visione dei nonni, il loro rapporto che avevo visto e il mio rapporto con loro vissuto fin da bambino.
TUTTA L’INQUIETUDINE DEL VIVERE IN PROVINCIA
Vorrei cantarti la mia canzone più bella
con le parole della mia gente,
di tutte quelle vite in pace e in guerra
che non canta mai nessuno
perché non contano niente.
Già nei primi versi, con quelle “parole della mia gente” che dichiaro di volere utilizzare, fa irruzione la scelta linguistica dialettale, insieme a tutta l’inquietudine del vivere in provincia, di quella vita che ribolle, per niente costituita da una tranquillità sorniona, di cui tante volte ci si potrebbe illudere solo fermandosi a uno sguardo superficiale. E invece , dietro “quelle vite in pace e in guerra, che non canta mai nessuno perché non contano niente” si può trovare davvero di tutto.
Io volevo in qualche modo farmi voce di tutte quelle piccole storie del paese, e, altra immagine chiave della canzone che merita un approfondimento, “parlare coi giovani di ottant’anni”. Mi rendo conto, infatti, che questa espressione, contrapposta a quella del “vecchi di vent’anni” che volutamente nella strofa successiva gli contrappongo, potrebbe richiamare una certa visione di retroguardia, per non dire retriva, che (come praticamente ogni generazione di adulti) liquida i giovani come inetti. In realtà, io volevo semplicemente osservare che, al di là dell’anagrafe, si può davvero essere giovani a ottant’anni e vecchi a venti quando non si riesce o non si vuole vedere un futuro, senza una voglia di vivere che proietta ancora in avanti.
Parlare coi giovani di ottant’anni
che passa il mondo ma loro restano lì
a contare le macchine sul ponte,
su quella strada che prima non passava di qui.
Dietro questo passaggio c’è un aneddoto direttamente riferibile a mia nonna Anna, che io ricordo in uno dei suoi passatempi più rilassanti e tipici degli anziani: guardare, seduta accanto alla finestra di casa dopo il caffè, le persone passare nella piazza e nella strada sottostante.
Nel testo vado poi avanti con la fantasia e immagino mio nonno che, con grande nostalgia, dice:
Vorrei portarti sulla cima del monte
e scendere giù dall’altra parte
per raccogliere dei fiori,
delle piante e un po’ del tempo
che si è fermato qui senza dire niente
ai vecchi di vent’anni
su quelle macchine sul ponte
che hanno una vita lì davanti
ma non hanno mai sudato per niente.
Qui potrebbe, come accennavo prima, sembrare che io – all’epoca ventenne – tagli quel cappotto di giudizio un po’ sommario che da adulti e anziani si tende a cucire sui giovani. Con quest’immagine non volevo affatto stroncare la categoria dei giovani (di cui peraltro all’epoca facevo parte), ma semmai, attraverso questa contrapposizione, che tante volte contrapposizione poi non è, volevo esprimere la fatica di vivere, che sarebbe diventato un tema cardine di molte mie canzoni, in particolare quelle in genovese, come per esempio A taera a l’è bassa».
Federico: «Stiamo parlando di una canzone che veramente racchiude tante idee, e secondo me lo fa con delle parole calibrate, sfruttando quella capacità e precisione che ha il dialetto nel dire molte cose altrimenti intraducibili».
LA MIA VITA CHE PASSA MA NON SE NE VUOLE ANDARE
Vorrei poter vivere per sempre per poter sempre vedere
l’olivo che nasce e l’uva che muore nel vino,
tutti i campi incolti e i solchi ancora da arare
la mia vita che passa ma non se ne vuole andare.
Ecco i versi attraverso i quali ho cercato, in casarzese (un genovese potrebbe storcere il naso di fronte alle variazioni linguistiche del dialetto di provincia!), di mettere in musica alcuni dei simboli più potenti della Liguria, l’olivo e la vite. E poi arriva l’immagine malinconica che dà il titolo al brano, “ciane zerbie”, cioè i campi incolti, abbandonati, e che, siccome momentaneamente o per lungo tempo non vengono coltivati, si riempiono di erbacce».
Federico: «Quella che evochi attraverso questi versi è una particolare immagine della vecchiaia che aspetta qualcosa che non arriva, che a me richiama molto i personaggi del teatro di Samuel Beckett. Nei testi di Beckett ci sono tanti personaggi anziani bloccati nel mondo del palcoscenico che li ha generati e che non li vuoi far uscire. I personaggi degli spettacoli di Beckett non vogliono uscire dal palcoscenico: dicono sempre che se ne vanno, ma non se ne vanno via mai, quasi sono schiavi di questo palcoscenico. Quest’immagine di Ciane zerbie me li ricorda molto».
Roberto: «Mi hai incuriosito, andrò a leggere e a vedere. Il brano descrive questa situazione che hai esattamente tratteggiato tu, questa questo malinconico fermo immagine della vita che passa ma non se ne vuole andare, guarda caso tema chiave dell’album che racchiude il brano: il passaggio sulla terra».
Vorrei essere l’uomo che non sono mai stato,
che sa sempre come fare, che ti sa convincere,
vorrei vederti con il tuo scialle, vorrei il mio lavoro,
vorrei ancora qualcosa da perdere e da vincere.
Lo scialle è un altro richiamo alla figura di mia nonna, che ne faceva largo uso, e i particolari del lavoro e di qualcosa da perdere e da vincere richiamano nel finale del pezzo proprio ciò che, secondo me, in linea con quella voglia di vivere già descritta e che caratterizza la gioventù, ci fa sentire vivi.
Ho provato a raccontare questa storia sostando in una sensazione di agrodolce, quella dimensione sospesa in cui mi piace soffermarmi scrivendo non solo canzoni come Ciane zerbie, perché è abitando questi sentimenti complessi, dove non bisogna per forza essere felici né per forza essere del tutto infelici, che mi sento vivo e curioso indagatore del mistero dell’esistenza.
Grazie ancora dell’attenzione e buon ascolto!»
DOVE ASCOLTARE IL PODCAST
Il podcast Petali nella burrasca è disponibile gratuitamente su Spreaker.com ed è distribuito su tutte le principali piattaforme di ascolto, tra cui Apple Podcast, Spotify, Deezer, Podcast Addict e Google Podcast.
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