Nonostante fin dalla più tenera adolescenza abbia in qualche modo consacrato la vita al mettere in musica e in parole le mie esperienze, le mie idee e la mia interiorità, più passano gli anni e sempre meno gradisco esibire tutto ciò che della mia esistenza considero privatamente prezioso o più semplicemente non degno di nota in quanto comune alle vite di molte altre persone.
Non credo affatto che, in quanto artista o a qualunque altro titolo, io possegga opinioni illuminanti su tutto, né che, tantomeno, sia autorizzato a tormentare ogni santo giorno con queste opinioni, con l’oro colato dei miei pensierini sul senso della vita o ancora con millemila autoscatti della mia faccia, i contatti dei miei profili social.
Al contrario, ho un’idea romantica della mia presenza sulla scena (la quale oggi è soprattutto una presenza online) che mi porta a uscire là fuori solo quando ho qualcosa da dire, soltanto quando c’è un’opera finita, e non la mia persona, da proporre a un pubblico. Facendo davvero per mestiere l’ufficio stampa e il social media manager, so che quest’idea, nell’epoca degli algoritmi, dei follower da cibare continuamente di contenuti e di imbarazzanti insulsaggini, è oggi assolutamente perdente. Ma sinceramente, detto tra noi, me ne frego e sono contento così.
Però c’è una storia che oggi voglio raccontare e che reputo davvero importante, perlomeno per me e, credo, per i miei cari.
È un racconto che inizia oltre venticinque anni fa, quando, ventenne imberbe e aspirante cantautore di successo, ho varcato per la prima volta la soglia della Facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Genova. Dopo gli anni al liceo classico, in cui accanto all’amore per le scienze umanistiche era maturata in me la vocazione musicale che di lì a poco avrebbe preso il sopravvento, sentivo che affiancare quel percorso di studi alla mia carriera di cantautore costituisse il sogno perfetto dell’artista intellettuale che ambivo ardentemente di diventare. E l’insegnamento delle lettere, lo sbocco professionale tipico della mia facoltà, sicuramente aveva già il suo fascino, ma cedeva il passo al profondo richiamo del palco e dello studio di registrazione.
Senonché, tralasciavo forse ciò che si sarebbe posizionato in mezzo a questi sogni di gloria, cioè la vita stessa e i suoi imprevedibili e fantastici accidenti.
L’impegno degli studi finì dunque per perdere parte della sua spinta propulsiva iniziale, sia perché cominciavo a lavorare parecchio con la musica, come insegnante e come artista, sia perché le mie attitudini creative trovarono un altro importante sbocco e grande soddisfazione nel lavoro socio educativo e di comunicazione che da oltre vent’anni mi impegna con il Villaggio del Ragazzo.
Vennero i miei album e l’immane lavoro artigiano alle loro spalle, le collaborazioni, i concerti, e dall’altra parte i progetti educativi e culturali, l’animazione musicale, le molte umanissime storie con le quali ho avuto il privilegio di venire a contatto, rendendomi, forse, utile in qualcuna di esse.
A quel punto, l’Università si era defilata progressivamente sullo sfondo della mia vita. Ma il mondo degli studi, della filosofia, della storia e della letteratura, continuava a pulsare forte nel cuore e, anche se era difficile ammetterlo, quel percorso lasciato a metà mi tormentava come una spina non tolta, come un cerchio non chiuso; sentivo che quella era in qualche modo la mia strada, anche se non l’avevo percorsa fino in fondo.
Inoltre, la mia casa, sposando nel frattempo una donna con la medesima passione per la cultura e lo studio, ha continuato a riempirsi senza sosta di libri, saggi e riviste come un continuo richiamo a quel mondo accademico sepolto da qualche parte là sotto. A un certo punto, insieme a Raffaella, sulla scia di questa tensione culturale ed educativa, abbiamo aperto pure un Centro Studi.
Poi arrivò, a scombussolare di meraviglia e d’amore il nostro viaggio, una rivoluzione chiamata Viola, la nostra prima figlia. E, qualche anno dopo, sul finire delle incisioni del mio ultimo album (a cui lavoravo con la mia band già dal 2015) arrivò anche la fatidica estate del 2019, che per me coincise con il risveglio del drago. Non so di preciso da dove partì l’intuizione, mi ricordo però che, alla fine della lettura di uno splendido romanzo, tra me e me pensai come avrebbe potuto essere avvincente lanciarmi a mia volta nella sfida della scrittura narrativa.
Fu allora che si riaccese improvvisamente quel fuoco mai del tutto sopito, e all’ipotesi di intraprendere un nuovo faticoso percorso da artigiano alla ricerca dell’affermazione della propria opera, come in fondo sono sempre stati i miei percorsi, ho compreso come, forse, avrebbe avuto un senso ancora maggiore, per me e per chi mi circonda, chiudere quella partita aperta con l’Accademia, rimettermi nuovamente in gioco e dare tutto in un ambito in cui il riconoscimento a cui ho sempre aspirato, sarebbe dipeso in gran parte dal mio impegno, e non dagli umori di un pubblico, di una piazza, di una congiuntura discografica astrale quasi mai favorevole, o dalle dinamiche tipiche dei più disparati ambienti di lavoro che ho frequentato nella mia storia professionale.
Ci sarei stato nuovamente solo io e il mio impegno, a fare i conti con il sacro fuoco della conoscenza e quella che, ora più che mai, considero l’istituzione più nobile ad essa preposta, cioè l’Università.
Così mi sono tuffato a capofitto negli studi, senza selfie delle sottolineature di matita o foto della mia scrivania piena di libri fighetti, senza annunci all’universo mondo degli esami superati con profitto, senza domeniche, sabati, ferragosti, ferie, senza niente di niente che non fosse lavorare e in ogni interstizio disponibile studiare e studiare ancora. In modo del tutto imprevedibile, ma grazie all’ininterrotta attività di studio praticata informalmente da sempre, mi sono ritrovato a saper sostenere, lavorando, ritmi impensabili di concentrazione e rendimento.
Un’esperienza stupenda e faticosissima, ma soprattutto impossibile senza la fiducia, la spinta, l’aiuto, insomma il gigantesco amore di Raffaella, che in ogni momento di questa avventura ha fatto sì che si potesse realizzare, predisponendo la vita intorno a me in modo che a 45 anni, con in ballo casa, lavoro, pandemia, stress come se piovesse, una figlia che cresce e una seconda in arrivo (la dolcissima Linda, che è nata tra l’ultimo esame e la tesi), potessi centrare finalmente quest’obiettivo. Un sogno che nel frattempo, visto che il mondo, poco dopo il mio esame in storia medievale, è stato travolto dall’uragano Covid-19, ha cambiato ancora i suoi connotati, passando da sfida personale a progetto professionale, risvegliandosi in me l’acuta passione per l’insegnamento.
Vabbè, per farla breve, alla fine è successo che, poco più di un anno e mezzo dopo la ripresa degli studi, superati nove esami (quelli rimasti indietro dopo l’abbandono di vent’anni prima), dopo circa un centinaio di libri studiati per sostenerli e altrettanti per preparare la tesi, dopo interminabili notti insonni e diottrie immolate sullo schermo del computer, lunedì 12 luglio 2021 (per la cronaca, nello stesso giorno in cui 30 anni prima, nel 1991, scrissi la mia prima canzone), con votazione 110 e lode sono diventato Dottore magistrale in Lettere con una tesi in storia della lingua italiana dal titolo Il lessico del sacro e del religioso nella canzone d’autore italiana, in cui, come si può intuire, convergono molti dei miei interessi e della mia vicenda di cantautore.
La sessione della discussione, alla presenza di un’autorevole e attenta commissione, è stata una delle esperienze più emozionanti della vita, che custodirò come un prezioso scrigno di energia per il futuro.
Il mio grande ringraziamento va quindi al mio relatore, il prof. Paolo Zublena, che ha dato fiducia alla mia idea, ha compreso la mia passione e sapientemente mi ha guidato nello sviluppare i temi della ricerca, al mio correlatore prof. Roberto Celada Ballanti, che mi ha onorato con parole indimenticabili sulla qualità del lavoro svolto, e grazie ancora alla brillante commissione che mi ha premiato con il massimo dei voti.
Grazie mille a Luciano e Giovanna, i miei genitori, che mi hanno sempre sostenuto in tutti i sogni e i progetti, comprendendo le mie aspirazioni profonde sia nelle andate che nei ritorni verso quelle aule universitarie.
Ecco, con quel po’ di saggezza che solo un percorso durato oltre venticinque anni può conferire, posso dire con certezza e gioia che, finalmente, ho trovato nel mondo dell’Università, sepolto e ritrovato come una perla preziosa nel giardino del mio passato mai perduto, quel riconoscimento che tanto ho cercato con fatica enorme altrove, e che non sempre ho ricevuto (esperienza comune a molti altri colleghi artisti).
Ho dato tutto per la cultura, e la cultura, lontano dai palchi e dalle classifiche, nell’umile nascondimento dello studio universitario, nel comprendere, man mano che il cervello si riempiva di nuovi concetti rendendomi sempre più conscio socraticamente di non sapere nulla, mi ha restituito senso critico, occhi e cuore aperti sul mondo, desiderio d’impegnarmi, di provarci e riprovarci ancora. Ora posso davvero riprendere con i concerti e far uscire quel benedetto disco finito e in attesa di essere pubblicato da prima della pandemia. Ora posso dedicarmi al sogno dell’insegnamento, se ci sarà modo, come spero, di esercitare il mestiere di professore di lettere. Ci metterò dentro tutto il resto, l’esperienza di trent’anni di canzone d’autore, di ventidue da educatore, e di cinque da padre.
E posso dire ancora che il patrimonio che, con Raffaella, vorrei lasciare alle mie figlie è proprio questo mettersi in gioco e l’amore per la conoscenza, la bellezza e la libertà. Che vale davvero tutto il resto.
A loro è dedicata ogni parola, ogni spazio e ogni virgola delle duecento pagine della mia tesi.
A Raffaella, Viola e Linda,
il lessico della mia vita,
gli accordi delle mie canzoni.
Con immensa passione
e infinita tenerezza.