No l’é unna ciaña o un paise, né palanche né pappê
Non è un campo o un paese, né soldi né carte,ma quelli ch’i a conoscio i a ciammo «Libertæ»,
ma quelli che la conoscono la chiamano «Libertà»,co-a zimma o co-a maccàia a gh’à e maneghe redogæ:
con il freddo pungente o con l’afa ha le maniche arrotolate:te ghe veu unna sappa drua in sciâ tæra de mæ poæ.
ti ci vuole una zappa dura sulla terra di mio padre.A tæra à l’é bassa
(musica e parole di Roberto Frugone)
Nell’undicesimo episodio del podcast Petali nella burrasca, conversando con l’amico regista teatrale Federico Luciani, abbiamo presentato A tæra à l’é bassa (La terrà e bassa), una mia canzone in dialetto genovese composta nel 2007 e di prossima pubblicazione all’interno del mio nuovo album. I versi e la musica del pezzo ci hanno portato a parlare di lingua, terra, libertà e lavoro.
Gli ascoltatori del podcast potranno ascoltare, al termine della puntata, la versione del brano registrata a Chiavari il 12 luglio 2018 da Fulvio Fusaro, nell’esecuzione dal vivo dalla Roberto Frugone Band durante lo spettacolo Liguritudine – Viaggio in Liguria, all’origine di un’idea di bellezza.
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A TÆRA A L’È BASSA
(Musica e parole di Roberto Frugone.
Tutti i diritti riservati ® S.I.A.E.)
S’i vegnisso un giorno a dîme che se peu
sceglie donde nasce co-a vitta che ti veu,
fra i tanti canti a-o mondo, belli o mâ ciappæ
pe chiña e pe straponta voriæ a tæra de mæ poæ.
No l’é unna ciaña o un paise, né palanche né pappê
ma quelli ch’i a conoscio i a ciammo «Libertæ»,
co-a zimma o co-a maccàia a gh’à e maneghe redogæ:
te ghe veu unna sappa drua in sciâ tæra de mæ poæ.
Perché a tæra à l’é bassa e sensa gran no gh’é fugassa:
cäo mæ fante che ti çerchi o scorsaieu,
ammia che chi a tæra a l’é bassa!
E invece ancheu i te dìxo che, inte sto ramaddan,
chi o cria in po’ ciù forte doman l’é zà baccan:
mæ poæ o l’à visto o feugo ceuve e e messoïe arriguâse zù,
ma o dixe «solo in sô ch’o luxe o stissa via a rozâ».
Perché a tæra à l’é bassa e sensa gran no gh’é fugassa:
cäo mæ fante che ti çerchi o scorsaieu,
ammia che chi a tæra à l’é bassa!
LA TERRA È BASSA
(traduzione del testo originale in dialetto genovese)
Se venissero un giorno a dirmi che si può
scegliere dove nascere con la vita che vuoi,
fra i tanti angoli del mondo, belli o miserabili,
per culla e per strapunta vorrei la terra di mio padre.
Non è un campo o un paese, né soldi né carte,
ma quelli che la conoscono la chiamano «Libertà»,
con il freddo pungente o con l’afa ha le maniche arrotolate:
ti ci vuole una zappa dura sulla terra di mio padre.
Perché la terra è bassa
e senza grano non c’è focaccia:
caro mio ragazzo che cerchi la scorciatoia,
guarda che qui la terra è bassa!
E invece oggi ti dicono che, in questa confusione,
chi grida un po’ più forte domani è già al potere:
mio padre ha visto il fuoco piovere e falci rotolare giù
ma dice «Solo un sole che splende asciuga via la rugiada».
Perché la terra è bassa
e senza grano non c’è focaccia:
caro mio ragazzo che cerchi la scorciatoia,
guarda che qui la terra è bassa!
MUSICISTI VERSIONE LIVE LIGURITUDINE [2018]
Versione inserita in coda alla puntata 11 del podcast Petali nella burrasca.
- Roberto Frugone – voce, pianoforte e tastiere
- Daniele Lagomarsino – chitarra elettrica
- Gianteo Bordero – basso
- Luca Laurino – batteria
SQUADERNARE RICORDI E PENSIERI ATTRAVERSO LA SCRITTURA
Federico: «Continuiamo il nostro percorso all’interno della tua produzione musicale esplorando in particolare tutte le canzoni che sanno di terra e di dialetto. La volta scorsa abbiamo affrontato la tua prima canzone in genovese, Ciane zerbie (Campi incolti), e oggi rimaniamo nella terra e scopriamo quanto la terra può essere bassa con A tæra à l’é bassa.»
Roberto: «Sì, A tæra à l’é bassa è un pezzo a cui sono molto legato, e mi fa sorridere il fatto che mi senti ripetere molto spesso questa frase, nel nostro podcast, ma è davvero così, soprattutto nel momento in cui andiamo affrontare e sviscerare i contenuti dei pezzi e veramente li scopro io stesso in profondità, nelle virgole, nelle parole e nei suoni che li hanno generati e in tutto quello che per me poi rappresentano.
Ma questo, dopotutto, è il bello dello scrivere: attraverso la scrittura ci si può permettere di squadernare ricordi e pensieri collegati a quelli che poi sono diventati i versi di queste canzoni».
Federico: «Già, senza pensare alle molte cose che rimangono inconsce».
Roberto: «Il podcast è uno strumento potente proprio perché permette in qualche modo, anche senza che nemmeno ce ne rendiamo troppo conto, di tirare fuori queste cose.
“LA TERRA È BASSA”: FATICA E LIBERTÀ DI VIVERE
A tæra à l’é bassa, come hai anticipato, è una canzone che approfondisce il legame con la terra. Il titolo – traducibile facilmente in “la terra è bassa” – riporta un proverbio, secondo me fra i più diffusi nelle culture contadine (non sono quella ligure, pertanto), il quale racchiude un messaggio icastico che si commenta da solo nella sua metafora.
È un’espressione che ho appreso dalla mia nonna materna, Maria Servente (recentemente scomparsa lo scorso 24 marzo 2022, alla veneranda età di 99 anni), dalla quale ascoltai per la prima volta pronunciare questo proverbio durante una nostra conversazione. Io non conoscevo ancora questo detto, e mi colpì molto l’immagine che esso comunicava con forza. Anche perché mi giungeva da una figura, quella di mia nonna, sempre sobria nelle parole e dedita con rigore, energia e onestà all’impegno lavorativo.
![Maria Servente [1922-2022]](https://www.robertofrugone.it/wp-content/uploads/2022/04/Maria-Servente-1922-2022-scaled.jpeg)
Accanto al concetto legato alla cultura rurale espresso dal proverbio che ha ispirato in principio il brano, è compreso anche un ragionamento su un altro un concetto chiave che si affianca a quello del lavoro e della fatica, ovvero il tema della libertà, che viene espresso citando una figura che per me è stata il veicolo di questo concetto di libertà, ovvero quella di mio padre, figura di cui abbiamo parlato già nella puntata di introduzione all’album Un giorno sulla terra».
PERIPEZIE EDITORIALI DI UN’INEDITO
Federico: «A tæra à l’é bassa è ancora una canzone inedita, non è mai comparsa finora in un tuo album. Sarà presente nel prossimo?»
Roberto: «Assolutamente sì, e questo fatto mi permette di mostrare uno scorcio delle peripezie editoriali che vivono queste canzoni, soprattutto nell’ambito di una produzione artigianale come la mia.
A tæra à l’é bassa è una canzone del 2007, e in questi anni, in attesa di una sua pubblicazione discografica ufficiale, l’ho proposta svariate volte dal vivo, anche nei contesti di natura animativa, e in particolare nel lavoro di animazione socio-educativa e socio-culturale che ho fatto per lungo tempo con gli anziani e nelle scuole.
Questo brano ha sempre riscosso attenzione e smosso ricordi soprattutto quando nel pubblico che si è trovato ad ascoltarla erano presenti degli anziani».
LIGURITUDINE, TRA MONTAGNA E MARE
Federico: «Mi sembra di poter dire, mettendo insieme anche altri pezzi che saranno oggetto di prossime puntate del podcast, che ne venga fuori una bella fotografia della Liguria, questa terra a metà strada tra montagne e mare.
E parlando di Liguria e dei tuoi progetti collaterali, non si può far altro che parlare anche di Liguritudine, lo spettacolo che mette insieme tutti questi tuoi testi in dialetto».
Roberto: «L’idea che hai esposto e che ho sempre osservato, ovvero il rapporto dei Liguri con la terra e con il mare è un concetto chiave di A tæra à l’é bassa e anche delle canzoni dedicate al mare che ho scritto.
LA MIA RICERCA LINGUISTICA IN DIALETTO GENOVESE
A questo proposito, devo confessare di aver composto, nella mia produzione cantautorale, relativamente pochi brani in dialetto, rispetto alla grande quantità di testi in italiano, perché mi sono trovato a fare i conti con una lingua estremamente complessa.
Nonostante io conosca e parli la lingua genovese fin dalla mia infanzia – soprattutto con gli anziani, il dialetto è la lingua dei ricordi, della terra, ma anche del mare –, diciamo che non è così semplice e così immediata la trasposizione linguistica in genovese nella scrittura della canzone, proprio perché mi piace fare ricerca in modo rigoroso.
Io provo a scrivere dei testi che hanno un equilibrato grado di ricercatezza testuale e mi piace andare a scovare delle parole particolari.
Per esempio, in questa canzone ce ne sono alcune, tra cui quella che fa da asse del ritornello, “o scorsaieu” (la scorciatoia). La scrittura del testo è pertanto il risultato di un percorso di equilibrio linguistico tra la semplicità spontanea del dialetto e la ricercatezza di alcuni termini con il loro suono suggestivo, facendo in modo che il testo non diventi uno sfoggio saccente di termini particolari come per compilare un dizionario».
Federico: «È sempre quella ricerca delle piccole cose, anche per fare poesia e per fare cantautorato “la terra è bassa”, bisogna chinarsi e cercare nella terra quei tartufi, quei tuberi che alla fine è difficile trovare, termini di minor uso e ricercati e impreziositi nella loro bellezza che in qualche modo emerge da quella terra. È una bella immagine che ben si sposa con la canzone in dialetto ligure».
ALLA LARGA DALLA RETORICA CAMPANILISTA
Roberto: «Ti ringrazio e ci tengo a dire che, attraverso queste canzoni in dialetto, ho sempre cercato di tenermi alla larga da un certo campanilismo ligure, da un’ostentazione, in questi pezzi, della bandiera di san Giorgio, perché non è assolutamente quello il mio obiettivo.
Non mi prefiggo di dire “Viva la Liguria” a tutti i costi come se essa fosse la cosa migliore del mondo, il mio scopo è più che altro scrivere in una lingua suggestiva, che per me coincide con i ricordi della terra dove sono nato, dove sono cresciuto e a cui ovviamente sono legato: si tratta di un procedimento che ovviamente è omologo a quello di chiunque altro scrive in dialetto nella lingua di un’altra zona d’Italia, paese in cui il dialetto è un patrimonio nazionale, proprio per via di come è fatta l’Italia stessa, sia dal punto geografico che storico.
È caratteristico come in essa si siano formate tante piccole comunità dove al loro interno la lingua si è differenziata tantissimo da quella del campanile di fianco. Il mio fine non è pertanto issare la bandiera genovese su tutte queste canzoni – un passo che sarebbe molto breve da compiere – ma provare a scrivere in una lingua diversa emozioni, idee e contenuti, e intraprendere una sfida espressiva, cioè la stessa sfida di contenuto e di linguaggio di una canzone in lingua italiana».
FORZA SPONTANEA E SENZA MASCHERA DELL’ESPRESSIONE DIALETTALE
Federico: «A questo proposito, frequentando la realtà sociale del teatro, in particolare nella mia tesi di laurea ho parlato del teatro in carcere, ho osservato che spesso si permette ai detenuti che fanno attività teatrale di utilizzare in scena il loro dialetto, perché questo li riporta maggiormente in connessione con loro stessi e con la parte più vera di loro.
Mi viene in mente ancora l’esempio di un mio compagno di classe della scuola superiore, che parlava ordinariamente un italiano corretto, ma che, quando si arrabbiava, si esprimeva calorosamente in dialetto».
Roberto: «Capita anche a me, il dialetto, per chi lo parla, tende a esprimere la parte forse più connessa spontaneamente a una parte verace, senza maschera di noi stessi. Anche nell’ironia e nelle battute di spirito il dialetto è molto efficace, per non parlare poi dell’infinità di espressioni volgari e degli intercalari che sono all’ordine del minuto nelle conversazioni».
FATICA, LIBERTÀ, LAVORO
Federico: «Entriamo dentro la canzone: parliamo di questa libertà e di come per ottenere il grano e la focaccia, i frutti della libertà, bisogna faticare…»
Perché a tæra à l’é bassa e sensa gran no gh’é fugassa:
Perché la terra è bassa e senza grano non c’è focaccia:cäo mæ fante che ti çerchi o scorsaieu,
caro mio ragazzo che cerchi la scorciatoia,ammia che chi a tæra a l’é bassa!
guarda che qui la terra è bassa!
Roberto: «Anche qui, linguisticamente e foneticamente, urge il confronto con il genovese, che dal punto di vista filologico nel mio caso occorre specificare che è genovese/casarzese (qualche genovese di Genova all’ascolto potrebbe risentirsi!). Partendo quindi da una matrice di genovese standard, nel pronunciare quel “cäo mæ fante” (caro mio ragazzo) ho in mente la caratteristica cadenza ricolma di storia, fatica e saggezza antica di quella stessa nonna che mi ha insegnato il proverbio A tæra à l’é bassa.
Tutto questo per dire che la vita non puoi aggirarla: se vuoi raggiungere una qualsivoglia forma di risultato nella vita devi faticare, da lì non si scappa. Questo volevo esprimere, utilizzando l’immagine del campo di grano, della focaccia e degli oggetti legati alla terra e al lavoro contadina.
Quella di lottare per raggiungere un risultato può essere una riflessione, un’ideale che inquieta (oggi peraltro variamente messo in discussione quando non apertamente contestato o addirittura deriso da più parti). A me, invece, è più che mai una concezione che ispira e tranquillizza, perché implica il concetto della libertà, in questo caso legata al lavoro, e introdotto dalle due strofe precedenti al ritornello, in cui in sintesi dico che, se anche mi offrissero le cose più belle del mondo, se avessi potuto nascere chissà dove e in chissà quale condizione privilegiata, vorrei quello che ho e che sono, perché mi va bene dove sono nato. È qui che mi gioco la partita».
S’i vegnisso un giorno a dîme che se peu
Se venissero un giorno a dirmi che si puòsceglie donde nasce co-a vitta che ti veu,
scegliere dove nascere con la vita che vuoi,fra i tanti canti a-o mondo, belli o mâ ciappæ
fra i tanti angoli del mondo, belli o miserabili,pe chiña e pe straponta voriæ a tæra de mæ poæ.
per culla e per strapunta vorrei la terra di mio padre.
Federico: «Ecco la scelta, la confermazione del luogo in cui vivere e dove vuoi vivere, quella provincia di cui abbiamo già parlato tante volte…»
CONTADINI E MARINAI
Roberto: «E nella strofa successiva lascio intendere e cerco di comunicare che, anche se quello della terra della libertà è un ideale – l’immagine che ne ho negli occhi e nella memoria è per me quella della Liguria, con quei suoi monti arroccati sul mare, e con questa ambivalenza di contadini marinai che hanno i liguri. In modo particolare penso agli storici abitanti di Casarza Ligure, dove sono cresciuto io, i quali hanno sempre avuto questo legame con il mare e nello stesso tempo una cultura di terra.
Questo fatto è accaduto anche per via della connessa realtà delle fabbriche dell’adiacente città di Sestri Levante – soprattutto i cantieri navali di Riva Trigoso – in cui hanno lavorato tanti abitanti di Casarza Ligure, molti dei quali erano contadini che coltivavano la spianata della val Petronio (l’antica Valle Petronia) e allo stesso tempo costruivano navi nei cantieri sul mare. Questa, per esempio, è la storia di mio nonno paterno Vittorio, di cui ricordo una sorta di doppia anima data dal contatto con il mare mescolato a una cultura rurale.
Apro un ulteriore parentesi, a proposito: se prendiamo in considerazione la cultura culinaria ligure, osserviamo che, non a caso, i piatti più celebri, tra cui il pesto alla genovese (vera e propria bandiera ligure), non sono piatti di mare. Quella ligure è molte volte una storia di persone abbarbicate alla terra e costrette a lavorare e a muoversi per mare, e che pertanto hanno sempre cercato di portare con sé un pezzetto di terra: dietro il pesto c’è anche questo.
TERRA E LIBERTÀ
Comunque, a partire da questa immagine negli occhi, che per me è quella della Liguria, nella seconda strofa cerco di fare intendere che quella terra è qualcosa di molto di più che un immagine geografica: quella terra è la libertà.
E cerco di descriverla attraverso una serie di negazioni:
No l’é unna ciaña o un paise, né palanche né pappê
Non è un campo o un paese, né soldi né carte,ma quelli ch’i a conoscio i a ciammo «Libertæ»,
ma quelli che la conoscono la chiamano «Libertà»,co-a zimma o co-a maccàia a gh’à e maneghe redogæ:
con il freddo pungente o con l’afa ha le maniche arrotolate:te ghe veu unna sappa drua in sciâ tæra de mæ poæ.
ti ci vuole una zappa dura sulla terra di mio padre.
Voglio dire che io ho appreso da mio padre, o perlomeno credo di averlo fatto, la libertà attraverso il lavoro, una libertà che in A tæra à l’é bassa ho definito con tratti che esprimono un certo qual tratto di fierezza, di orgoglio di essere liberi e pertanto non condizionati nelle cose. In questo senso, mi viene in mente anche l’articolo primo della nostra Costituzione, in cui il lavoro ha questo ruolo così cardinale».
Federico: «Anche l’altra strofa, dove canti
E invece ancheu i te dìxo che, inte sto ramaddan,
E invece oggi ti dicono che, in questa confusione,chi o cria in po’ ciù forte doman l’é zà baccan:
chi grida un po’ più forte domani è già al potere:mæ poæ o l’à visto o feugo ceuve e e messoïe arriguâse zù,
mio padre ha visto il fuoco piovere e falci rotolare giùma o dixe «solo in sô ch’o luxe o stissa via a rozâ
ma dice «Solo un sole che splende asciuga via la rugiada.»
mi viene da accostarla a noi oggi, alla nostra generazione. Quante cose nuove e terribili abbiamo visto, anche solo in questi ultimi tempi? Eppure questa libertà continua a risuonare sempre nelle nostre orecchie, e mi chiedo se certe volte perfino non ne abusiamo un po’».
PAROLE CHE CAMBIANO A SECONDA DELLA SPONDA DEL MARE DA CUI LE PRONUNCI
Roberto: «Nella terza strofa del pezzo c’è un altro termine dialettale particolare, “ramadan“, che mi piaceva riportare con il concetto attraverso cui questo importante momento della cultura religiosa islamica è stato interpretato e trasposto nella cultura ligure, perché è un fatto che fa riflettere.
“Ramadan”, in genovese, significa “baccano, frastuono“, perché l’idea a cui viene collegato è quella della fragorosa festa serale che, durante il periodo di Ramadan può accompagnare la notte in cui, al calar del sole, ci si può nutrire e appunto si fa festa.
Un punto di vista diverso, e come tale – c’è da dirlo – giudicante nei confronti dell’altro (è questo che fa pensare) e della sua altra tradizione e confessione religiosa, ha interpretato in modo laterale e riduttivo il significato di questo termine, e ciò la dice lunga sui rapporti interculturali tra i popoli del mediterraneo, in questo caso particolare lo storico rapporto dei genovesi con i saraceni, ricco di così tante implicazioni linguistiche e culturali.
A me piaceva includere questo termine nel pezzo, non perché la canzone diventasse discriminatoria – lo dico per gli amici musulmani! – ma al contrario perché essa costituisse un un tuffo in questa suggestiva cultura mediterranea, dove mi meravigliava come le parole cambiassero a seconda della sponda da cui le si pronunciava.
FUOCO CHE PIOVE E FALCI CHE ROTOLANO
Mæ poæ o l’à visto o feugo ceuve e e messoïe arriguâse zù,
mio padre ha visto il fuoco piovere e falci rotolare giùma o dixe «solo in sô ch’o luxe o stissa via a rozâ
ma dice «Solo un sole che splende asciuga via la rugiada.»
Fortunatamente, mio padre non ha visto direttamente la guerra, ma in questi versi volevo rappresentare – da figlio – le cose grandi e le grandi scelte che un padre deve compiere di fronte al figlio, scelte che mettono in gioco la libertà. Allo stesso tempo, condivido con te l’idea che anche la nostra generazione, soprattutto in questi ultimi anni, è stata costretta – a partire dalla pandemia Covid-19 fino ad arrivare al presente recentissimo in cui la guerra è alle porte dell’Europa – a prendere contatto con realtà che ci trascendono tantissimo. Tutto questo, nell’arco di pochissimo tempo, sta sconvolgendo nuovamente il nostro presente e le nostre prospettive.
A tæra à l’é bassa dice che «Solo un sole che splende asciuga via la rugiada», ovvero un invito ad andare a cercare il fuoco della libertà da qualche parte. Ognuno può dare il significato che vuole al “sole che splende”, ma questo era ciò che volevo scrivere».
Federico: «Ritorna la rugiada e il sole che splende, un’immagine che abbiamo già visto in una tua canzone».
UNA BALLATA TRA BLUES E FOLK
Federico: »E la musica?»
Roberto: «La musica di A tæra à l’é bassa è frutto di esperimento stilistico, nella cui composizione ho fatto ricorso anche a delle reminiscenze blues, nonostante questo fondamentale genere musicale, che apprezzo molto e ho molto studiato sia per esigenze didattiche che musicologiche, non sia propriamente immediato nelle mie corde.
Il blues è all’origine della cultura musicale moderna: il pop e il rock affondano le loro radici nella tradizione musicale afroamericana, e alcuni passaggi di questa mia canzone possiedono delle sonorità che si richiamano a questo genere.
LA DIMENSIONE PERSONALE DEL RITMO: IL “FRUGONOMO”
Nello stesso tempo, A tæra à l’é bassa è una ballata malinconica in Si minore che si fonda su un incedere chitarristico folk portante di ritmo medio lento.
Riporto nel merito un’interessante osservazione riscontrata da più musicologi: pare che ogni musicista compositore abbia una sorta di proprio tempo medio attorno a cui tende a informare la propria musicalità e a concepire frequentemente i propri brani.
A me, questo fatto l’hanno fatto osservare spesso i musicisti che lavorano con me, anche prendendomi simpaticamente un po’ in giro rispetto a certe mie elasticità e libertà ritmiche che mi prendo a volte nell’interpretare il tempo, parlando a questo proposito non più di metronomo ma di “frugonomo”!
Io, nel ringraziarli di questo onore, osservo che questo frugonomo mi fa riflettere sulla dimensione personale del tempo, che ricorda il battito cardiaco, e in senso lato il rimo vitale di ciascuno.
È forse anche per questo (o forse a volte anche più semplicemente per una banale ripetitività in cui si può incappare) che la velocità di diversi miei brani tante volte ruota a una certa medesima frequenza di battito.
Questa tipica velocità agevola inoltre il mio modo di versificare le parole sui pezzi: quei ritmi di velocità media sono congeniali alla costruzione delle frasi inizialmente senza senso – il famoso “italiese” delle canzoni che i parolieri conoscono molto bene – con cui si compongono testi per canzoni, all’inizio costituiti da idee e spunti di versi che successivamente vengono adattati e cesellati sul verso musicale, caratterizzato da quella costruzione ritmico metrica, croce e delizia del songwriting, l’arte di scrivere canzoni.
Proprio il fatto di dover costringere le parole dentro gli spazi del ritmo musicale, accanto alla peculiarità di arte popolare e poliedrica, è uno degli aspetti che del songwriting ha maggiormente conquistato me, che, come te e gli ascoltatori del podcast avrai osservato, tendo invece a essere abbastanza prolisso! Con la canzone devi fare sintesi, saper tagliare, limare e aggiustare continuamente il verso, inserire la rima giusta laddove serve, eccetera, eccetera».
Federico: «È bello concludere con quest’immagine del tempo, del ritmo molto cadenzato, proprio come il battere della zappa che scava la terra, icona di partenza di A tæra à l’é bassa, in questa terra bassa alla ricerca di parole. Ed è proprio quel tempo, quella frequenza che ti aiuta a trovare le parole giuste da mettere in musica».
DOVE ASCOLTARE IL PODCAST
Il podcast Petali nella burrasca è disponibile gratuitamente su Spreaker.com ed è distribuito su tutte le principali piattaforme di ascolto, tra cui Apple Podcast, Spotify, Deezer, Podcast Addict e Google Podcast.
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