Mi sento argilla
ostinatamente ribelle
al fatto che è di terra
la mia anima e questa pelle,
Ma anche qui, a un miliardo di chilometri,
tra un miliardo di lenticchie nel blu,
la mia stella resti tu.Voyager – il cercatore di stelle
(musica e parole di Roberto Frugone)
Nel settimo episodio del podcast Petali nella burrasca, conversando con Federico Luciani (autore, attore e regista teatrale), abbiamo parlato di Voyager – il cercatore di stelle, una mia canzone pubblicata in Appunti di viaggio, il mio album di debutto solista di cantautore (1996).
Il dialogo, proprio come il soggetto di questo brano – ispirato alla storia della sonda spaziale statunitense lanciata nello spazio nel 1977 per l’esplorazione del sistema solare esterno – ci ha condotto lontano, ad approfondire in particolare alcuni spunti sollevati dal pezzo, come la ricerca del divino e la potenza espressiva e sociale della musica.
Gli ascoltatori del podcast troveranno, al termine della puntata, la versione originale del brano, incisa da Enrico Pianigiani e arrangiata con il contributo del violinista Paolo Banchero.
Buon ascolto!
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VOYAGER – IL CERCATORE DI STELLE
(Musica e parole di Roberto Frugone.
Tutti i diritti riservati ® S.I.A.E.)
Freddo interspazio.
Satellite nove a un passo da Giove.
Sì, che grande viaggio
ma quale astronave nel buio stellare può,
a un miliardo di chilometri,
tra un miliardo di miraggi blu,
arrivare fin lassù
su quest’arca di Noè,
dov’è grande il peccato
Tu sei più grande di me,
cercatore di utopie
su rotte che portano al nulla
come specchi per le allodole.
Mi sveglio con il giorno:
sull’altopiano adesso è mattino.
Sì, era un sogno,
ma è immenso il desiderio di dare e avere amore.
Qui, a un miliardo di chilometri,
un miliardo di diabolici
surrogati di Te non ne voglio più.
Ma com’è grande il dolore,
staccarsi dai soliti logori vecchi cliché:
la vita ha un altro odore,
ma la mia carne è debole, la mia mente fragile.
Mi sento argilla,
ostinatamente ribelle
al fatto che è di terra
la mia anima e questa pelle;
ma anche qui, a un miliardo di chilometri,
tra un miliardo di lenticchie nel blu,
la mia stella resti Tu,
col tuo sogno su di me,
così semplice e umano
e per questo lontano da me,
che ho percorso mille scie
e ho trovato ragioni per tutto,
son rimaste le mie malattie.
Curami col tuo balsamo,
Dio che ti nascondi e mi hai mostrato oltre il dolore
amici che mi aspettano
e un volto di ragazza da fare innamorare.
Là, a un passo e pochi spiccioli,
tra un miliardo di proiettili
c’è la mia terra e ancora voi,
gli abitanti del mio cuore,
di questo vascello sottratto al sistema solare,
cercatore di umani frammenti di stelle
che hanno inciso per sempre
il tuo nome sulla pelle.
MUSICISTI VERSIONE ORIGINALE IN STUDIO (1996)
- Roberto Frugone – voce, pianoforte, armonica a bocca, tastiere e programmazione
- Paolo Banchero – violino

UNA CANZONE SUGLI “INTERMINATI SPAZI”
Federico: «Chi è dunque questo cercatore di stelle? E com’è nata questa canzone? Raccontaci…»
Roberto: «Sono tanti e diversi gli stimoli in qualche modo all’origine di questa canzone, a cui, anche a distanza di così tanto tempo dalla sua composizione, sono molto legato. In particolare, ho provato a cantare la suggestione generata dalla riflessione sull’esplorazione dello spazio profondo, quell’ambito di scoperta e indagine da parte dell’uomo, che mette in collegamento la dimensione scientifica e di conoscenza con quella del mistero, più familiare alla mia sensibilità artistica.
Da sempre, il pensiero di quegli “interminati spazi” di leopardiana memoria ha ispirato tantissime opere d’arte così come le riflessioni e le intime domande di ciascuno di noi.
Pertanto, Voyager, il cercatore di stelle sono io, ma allo stesso tempo possiamo essere tutti. La domanda che ritorna tante volte nelle mie canzoni, così come in molte altre opere di artisti di ogni parte del mondo, è “che ci facciamo, qui? Dove andiamo? E da dove siamo venuti?”
L’immagine della navicella spaziale del protagonista del pezzo è stata ispirata da un fatto vero, che infatti era annotato nel testo introduttivo riportato nel libretto originale dell’album Appunti di viaggio:
Voyager è il nome di una sonda spaziale, una navicella che, dopo il lancio, non rimane in orbita attorno alla Terra, ma si allontana per esplorare altri pianeti, diretta verso l’ignoto.
Voyager era infatti il nome di due sonde spaziali statunitensi lanciate nello spazio nel 1977 per l’esplorazione del sistema solare esterno: è questa la storia che mi ha ispirato il pezzo, in cui ho immaginato che a bordo di questa navicella ci fosse un essere umano, una persona che, a un certo punto, sente una profondissima nostalgia di casa, intesa sia come la Terra, ma anche – aspetto che mi piace particolarmente di questa canzone – e soprattutto come i propri affetti, la propria intimità e la dimensione più domestica dell’esistenza. E questo, come più volte abbiamo sottolineato, è uno dei temi chiave della mia poetica».
ALLA RICERCA DI PUNTI LUMINOSI
Federico: «Non so se l’hai fatto apposta, ma in una canzone di cui abbiamo già parlato, L’arrivo della sera, citi il “cercatore di stelle”…»
Mosca, Londra, Genova, stessa rete elettrica:
oggi non c’è più distanza irraggiungibile.
Ma un’altra roba è andarci da cercator di stelle,
se l’amore o un suo parente ti conducono làL’arrivo della sera
(musica e parole di Roberto Frugone)
Roberto: «Sì, è vero, anche se non l’ho fatto proprio apposta! L’immagine del cercatore di stelle che ritorna in più canzoni è quella dell’uomo che, a bordo di questa navicella, esplora lo spazio profondo e infinito, è alla ricerca di stelle, intese come punti luminosi, che nel mio linguaggio metaforico e simbolico possono rappresentare dei punti di riferimento affettivi, ma allo stesso tempo metafisici o di qualunque sorta».
MAIUSCOLE E MINUSCOLE
Federico: «A una prima lettura, il testo, in quel “tu” di “la mia stella resti tu” possiamo pensare a un “Tu” maiuscolo, e pertanto a un creatore, a un dio. Invece, in quel “tu” ci metti anche i tuoi affetti».
Roberto: «È proprio così, questo è un aspetto che credo interessante e che mi piace raccontare. Il “tu” a cui mi riferisco, in molte di queste canzoni delle mie origini di cantautore, è il “totalmente altro”, il divino. Ero pervaso, all’epoca, da un intenso sentimento di tipo religioso, laddove per religioso, come più volte ho detto, non intendo tanto l’aspetto confessionale o rituale, di appartenenza a una data fede, quanto l’essere spirituale, una persona alla ricerca di una connessione intima e profonda con una qualche fonte unica, ispirativa e fondativa dell’universo. Insomma, mi interessava la ricerca di Dio. E questo “tu” identifica questa alterità profonda di cui io tuttora sento un altrettanto profondo bisogno, ma nello stesso tempo, quella alterità è la stessa di cui avverto il bisogno anche nella relazione con qualunque persona con cui entro in contatto.
L’altro è colui, colei o coloro con i quali, attraverso lo stabilirsi di un’intensità e profondità relazionale, io sento che si aggiunge qualche cosa alla mia umanità (e spero anche a quella dell’altro), e che accade attraverso la relazione con questo “tu”, il quale indistintamente identifica sia un ipotetico divino, sia un reale “tu” che sta dall’altra parte del mio sguardo. In fondo è ciò che in qualche modo stiamo facendo anche adesso mentre dialoghiamo. Il “tu”, pertanto, nelle mie canzoni possiede sempre questa voluta ambiguità, infatti più volte l’ho scritto in maiuscolo, per dargli nobiltà, per personificarlo, per esprimere il bisogno profondo di non sentirsi soli nel cosmo, e nello stesso tempo, però, oggi molti di quei “tu” che ho scritto in maiuscolo in passato li riscriverei assolutamente in minuscolo, senza che questo cambi niente del valore relazionale che si dà all’altro».
LA POTENZA ESPRESSIVA E SOCIALE DELLA MUSICA
Federico: «Possiamo dire anche che, proprio per dare ancora più spazio a queste relazioni, di cui esprimi la mancanza nel testo di Voyager, aprendoti con l’album Appunti di viaggio al mondo della musica e dell’arte, hai trovato in questa dimensione un modo per avvicinarti, per consolidare e rendere ancora più importanti queste relazioni poiché le hai messe pure in musica. Possiamo dirlo?»
Roberto: «Sì, la musica, e più in generale l’esperienza dell’arte, se può valere il mio messaggio, è un potentissimo mezzo di espressione del sé.
Più volte ho ironizzato e scherzato su questo concetto dicendo che, se non avessi avuto l’arte e la musica, nella mia adolescenza e prima giovinezza, sarei sicuramente esploso!
Perché l’arte è stata necessaria per tutta questa voglia di dire, di raccontarsi e di raccontare. La musica mi ha aiutato a dire agli altri chi sono e mi ha permesso di entrare in relazione con essi.
L’ARTE NON È MESSAGGISTICA
In questo ragionamento occorre però distinguere bene: l’arte non è una forma di messaggistica privilegiata.
Scrivere canzoni non è mandare messaggi sperando di ricevere una risposta, come può accadere in una chat, sulla bacheca di un social network, al telefono o in una comunicazione interpersonale.
Niente di tutto questo: secondo me nell’arte, nella scrittura (che per me si identifica con la scrittura delle canzoni), il messaggio è più che altro inteso come un desiderio espressivo auto ed etero-narrativo, cioè di narrazione del sé e dell’altro, come di ciò di cui in qualche modo si esperisce, si incontra nella vita.
Mi riferisco quindi a un profondo bisogno di definire se stessi, gli altri e il mondo attraverso la scrittura: io sento proprio per questo la necessità di scrivere, e quando porto a termine una canzone ciò che mi appaga è l’aver fatto esistere scrivendole, per lo meno nel mio piccolo, quelle cose cantate in quel pezzo. Quelle cose esistono, in un certo senso le ho fotografate, fermate, raccontate, le ho dette con mie parole e miei suoni, trattenendole in qualche modo dal flusso dell’oblio, in cui potrebbero altrimenti perdersi».
Federico: «Anche a me, come creatore di contenuti, piace questo aspetto, che amo definire come “congelamento” di qualcosa che rimane così fermo nel tempo e continuerà a esistere. Un ricordo, ogni volta che verrà toccato, ascoltato o riletto avrà quello stesso gusto».
Roberto: «Proprio così, la parola detta, scritta, o come nel tuo caso recitata e interpretata (o nel mio caso cantata), esprime in qualche modo l’illusione di fermare il flusso degli eventi e delle cose, e di trattenerle con noi, nella loro bellezza così come nella loro tragicità e fragilità.
Dentro Voyager c’è sicuramente tutto questo: in questa riflessione cantata io immagino appunto di essere quell’astronauta che esplora lo spazio profondo “a un miliardo di chilometri, tra un miliardo di miraggi blu” e sente che il suo destino come il suo più profondo desiderio è quello di incontrare questo “tu”, di scoprire se davvero esiste, e di sentirsi un po’ il timoniere di quell’arca nel diluvio che è la sua vita, cercando di ricondurre tutto in un orizzonte di senso. Ecco, quest’immagine mi è capitato di utilizzarla spesso, scrivendo.
L’ARCA, L’ARGILLA E LE LENTICCHIE
Questa canzone, come molte altre di questo periodo della mia produzione, è intrisa di linguaggio biblico e di immagini, come per esempio quella dell’arca, che arrivano dall’Antico Testamento.
Mi sento argilla
ostinatamente ribelle
al fatto che è di terra
la mia anima e questa pelle,
Ma anche qui, a un miliardo di chilometri,
tra un miliardo di lenticchie nel blu,
la mia stella resti tu,
col tuo sogno su di me.Voyager – il cercatore di stelle
Anche l’immagine delle lenticchie e quella dell’argilla, che tu hai citato nei versi introduttivi di questa puntata, ha delle chiare ascendenze bibliche.
L’argilla è la sostanza primigenia con cui, nel racconto divino della creazione (nel libro della Genesi), Dio crea, plasma l’uomo. Pertanto, nel brano voglio esprimere che io mi sento come l’argilla nelle mani del creatore, in una visione creaturale di chiara impronta religiosa, in quanto sentirsi creatura presuppone ovviamente la presenza di un creatore e di una creazione. Mi sento una creatura però “ostinatamente ribelle” al fatto che sono fatto di terra, aspetto che ci tengo a rivendicare ogni volta.
Le lenticchie nel blu rappresentano invece sia il piatto povero che, metaforicamente, il cielo stellato, caratterizzato da quei puntini, piccoli legumi brillanti incastonati nel cielo. Mentre quel “tra un miliardo di lenticchie nel blu, la mia stella resti Tu, col tuo sogno su di me…” indica Dio che ha un sogno sull’uomo.
Ma le lenticchie, nella Bibbia, sono celebri soprattutto per la vicenda dei due figli gemelli di Isacco, Giacobbe ed Esaù, in cui quest’ultimo cede la primogenitura per un piatto di lenticchie, che quindi rappresentano l’elemento effimero con cui si baratta qualcosa di molto più grande. Però
il mio sogno resti tu, così semplice e umano
e per questo lontano da me,
che ho percorso mille scie
e ho trovato ragioni per tutto,
son rimaste le mie malattie.
“CURAMI COL TUO BALSAMO”
In fondo al pezzo ci sono i versi che, scrivendoli, mi hanno emozionato di più:
Curami col tuo balsamo,
Dio che ti nascondi e mi hai mostrato oltre il dolore
amici che mi aspettano
e un volto di ragazza da fare innamorare.
Là, a un passo e pochi spiccioli,
tra un miliardo di proiettili
c’è la mia terra e ancora voi,
gli abitanti del mio cuore,
di questo vascello sottratto al sistema solare,
cercatore di umani frammenti di stelle
che hanno inciso per sempre
il tuo nome sulla pelle.
Anche il balsamo, questa sostanza che lenisce il dolore e profuma, è un termine mutuato dalla Bibbia che mi è capitato di utilizzare più volte.
Ecco, però questo “tu” che si può identificare con il divino, senza nulla togliere all’ispirazione di questa redazione, davvero oggi lo sostituirei tranquillamente con un “tu” interpersonale minuscolo, che rivela l’umano, quella dimensione di cui poi infatti già allora ero alla ricerca, quegli “amici che mi aspettano e un volto di ragazza da fare innamorare”, i volti che posso incontrare senza dover andare chissà dove, “là, a un passo e pochi spiccioli, tra un miliardo di proiettili”.
Nel testo ritorna poi il termine “miliardo” con cui volevo esprimere la vastità del numero, sia delle stelle del cielo così come delle insidie della vita, nella mia quotidianità, dove posso però trovare “ancora voi, gli abitanti del mio cuore”, che è come un’arca, un “vascello sottratto al sistema solare”.
STUPORE E NOSTALGIA
Quindi chi sono ancora? Chi mi sento di essere? “Un cercatore di umani frammenti di stelle che hanno inciso per sempre il tuo nome sulla pelle”.
Ecco, indipendentemente dal fatto che il divino (o ciò che con esso andiamo a identificare) ci sia o meno, una cosa che posso dire con assoluto stupore è che, in forme diverse, spesso si attaglia e si muove dentro di noi una profonda nostalgia di tutto questo orizzonte di senso, di quella presenza di un’alterità con cui dialogare».
Federico: «E devo dire che la musica di Voyager si sposa bene con questi concetti, con questa nostalgia e malinconia, che non è per forza un sentimento negativo, ma è qualcosa che si muove dentro e ti lascia inquieto, comunque bisognoso di una risposta».
Roberto: «Voyager, attraverso l’immagine del viaggio nello spazio profondo, esprime per me quell’andare lontanissimo per poi comprendere – o sospettare (io lascio aperte tutte le ipotesi) – che la risposta, forse, è a pochi passi, forse è attorno a me o anche dentro di me.
A questo proposito, per chiudere con una risata dopo tanta serietà, mi viene in mente la celebre battuta dell’improbabile santone Quelo, l’esilarante personaggio creato del grande comico Corrado Guzzanti, il quale, con dissacrante lapidarietà rispondeva ai quesiti sulla vita, la morte e l’aldilà che gli poneva il pubblico, affermando che
la risposta è dentro di te,
e però è sbagliata!»
Federico: «Questa non la sapevo!»
Roberto: «C’è posto per tutto, sicuramente!»
DOVE ASCOLTARE IL PODCAST
Il podcast Petali nella burrasca è disponibile gratuitamente su Spreaker.com ed è distribuito su tutte le principali piattaforme di ascolto, tra cui Apple Podcast, Spotify, Deezer, Podcast Addict e Google Podcast.
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